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Le nuove sfide della ristorazione italiana nel mondo e a New York

ristorazione Feb 12, 2021
 Piero Armenti, [email protected] 

 Tutto partì da nostra nonna

Un tempo nostra nonna faceva la pasta in casa, e la salsa si imbottigliava a partire dai pomodori. Era un’Italia rurale di famiglie allargate. Poi è arrivata la modernità, gli anni ’50 e ’60, la televisione nazionale, il carosello pubblicitario, l’ Italia si è urbanizzata e le famiglie sono diventate nucleari, formate da mamma, padre e bambino. Le donne sono entrate nel mercato del lavoro in massa, e non c’era troppo tempo per cucinare: la pasta si comprava prima sfusa e poi imbustata, e la salsa si prendeva sugli scaffali prima del negozio sotto casa, poi del supermercato. Bastava mettere l’acqua a bollire, un sughetto veloce e stop.  I classici quindici minuti per cucinare. La pasta fatta in casa aveva bisogno di tempo, e si poteva fare al massimo la domenica, mentre la tradizione delle bottiglie per il sugo rimaneva relegata all’Italia dei paesi.  La pasta al sugo diventava il piatto dell’unità nazionale, il simbolo dell’ascesa della classe media degli anni ‘60, della famiglia veloce, e in parte lo è ancora nonostante la criminalizzazione da picco glicemico del carboidrato: costa poco, veloce e nutriente. La pasta (e la sua industrializzazione) si sposò a perfezione con il trapasso dall'Italia rurale a quella urbana.  Al primo piatto di solito si accompagnava un secondo proteico, la fettina di carne o di pollo, simboli quest’ultimi di un benessere  da boom economico che la generazione precedente, in guerra, si sognava.  Gli anni ’80 hanno visto il moltiplicarsi di cibi già pronti, magari surgelati, al supermercato, e anche un’erosione della qualità del cibo, dovuta all’iperindustrializzazione alimentare: iniziava anche l’ossessione per la dieta, in televisione l’immagine a colori prendeva il posto di quella in bianco e nero. La Tv commerciale ampliava lo spettro pubblicitario, e offriva occasioni di visibilità ad ogni diavoleria alimentare: sofficini (nati nel 1975), cordon bleu, bastoncini entravano a far parte dell’alimentazione degli italiani. Certo i surgelati vennero inventati a metà anni ’60, ma solo negli  anni ’80 divennero di massa.

 Esternalizzazione della cucina di casa

Oggi invece siamo ad un’ennesima evoluzione: l’esternalizzazione della cucina.  Si moltiplicano i delivery, si ordina spessissimo cibo a domicilio, e in genere si  va comunque più spesso al ristorante: anche ogni giorno, o più volte al giorno. Al classico primo, secondo, frutta e dessert si è sostituito il piatto unico, al massimo con un antipasto. Per certi aspetti si può parlare della “metropolizzazione” delle piccole realtà urbane. La vita che un tempo si faceva solo a Milano ora si fa anche a Salerno o Perugia: aumenta l’offerta culinaria nei piccoli centri,  i ristoranti etnici o quelli di lusso si moltiplicano, aumentano i delivery. Siamo in un’unica grande metropoli globale. Da New York a Palermo, ho un’ app in cui posso ordinare il sushi a domicilio.

Sfrecciano le biciclette dei riders

 Sfrecciano le biciclette dei riders, e i piatti cotti volano dalla cucina nelle case degli italiani lungo percorsi suggeriti da un GPS, un allargamento pauroso del mercato della ristorazione avvenuto nel giro di dieci anni grazie al GPS, alle app per il delivery. Ma se da un lato si è allargato il mercato, grazie al delivery, è mutato anche il senso della ristorazione tradizionale: i cuochi sono diventate star, in Tv se li contendono,  e l’esperienza dell’alta ristorazione è diventata soprattutto teatro, dove gesto, ambiente, luci, e servizio contano quanto quello che hai nel piatto. Forse anche di più. In questo una rivoluzione copernicana: all’origine della trattoria c’è il “forestiero”, “il viandante” che di fatti era l’unico cliente. Ora l’alta ristorazione diventa il luogo dell’ambizione sociale, dove si certifica il passo successivo nella scalata alla società dei consumi, l’appartenere ad una élite che può permetterselo. Non c’è più la necessità (il forestiero doveva mangiare lontano da casa) ma l’ambizione.

 La poesia della ristorazione italiana all'estero

 Anche in questo caso siamo ad un passaggio epocale. Mia nonna al ristorante andava solo durante i grandi eventi familiari, ma non sempre, perché spesso gli eventi venivano fatti a casa. Mia mamma un paio di volte al mese (e per mangiare la pizza) io ora ci vado anche ogni giorno, e mangio cucina filippina, peruviana, giapponese. Benvenuti nella postmodernità dei non luoghi, a cui si aggiunge un nuovo tassello: i social, che sono diventati lo strumento di ricerca di nuove avventure culinarie (ci ho fatto un corso qui), mentre le recensioni su TripAdvisor, Google, e in America su Yelp, sono diventate il nuovo strumento di minaccia del cliente verso il ristoratore. Questo mondo è in continua evoluzione, ed evolve come evolvono i costumi e la tecnologia. Poi però, e arriviamo al dunque, c’è la poesia della ristorazione italiana all’estero, che io vivo soprattutto a New York: un’occasione di riscatto economico e sociale per tanti giovani di periferia, che diventano imprenditori e ristoratori lontano da casa con la rabbia di chi emigra. Perché per sua natura quello della ristorazione è una settore dove la sostanza conta più della forma, l’esperienza e l’estro più dell’università. Ogni italiano che si rispetti, se l’è fatta questa domanda: E se aprissi un ristorante? È parte del nostro DNA come nazione, ed è un settore in cui abbiamo anche un certo talento, soprattutto all’estero dove grazie ai flussi migratori la cucina italiana è diventata patrimonio dell'umanità. In America poi la variante italoamericana è parte della tradizione culinaria locale. Basti pensare alla salsa Alfredo, nata a Roma e diventata famosa a New York. Se questa è la premessa, allora capirete che la prospettiva è rosea. Salvo pandemie, emergenze sanitarie e scenari di guerra (da non escludere), il futuro della ristorazione è un futuro in espansione dal fascino crescente, tutto questo grazie a questa nuova contemporaneità di esternalizzazione della cucina di casa: siamo troppo impegnati sui social e Netflix per perder tempo in cucina, quindi ordiniamo a domicilio, salvo quando decidiamo di dedicarci ai fornelli con passione, allora andiamo alla ricerca su Youtube di video culinari. Si ordina delivery per necessità, e si cucina per passione. Tutto qua il ribaltamento: prima si cucinava e basta.  Il delivery poi, a conti fatti, conviene: ha prezzi bassi, non c’è il rischio di scorte inutilizzate in frigorifero, si risparmia il tempo del supermercato. A guardarlo da vicino sembra un paradosso: ordinare una monoporzione di lasagna che arriva bella calda a casa conviene più che farsela, non solo per le materie prime ma per il tempo risparmiato. La storia dell’umanità d’altronde è questa: specializzazione. Cosa significa? Che deleghiamo mansioni ad altri, specializzati, per dedicare il nostro tempo a ciò che ci fa guadagnare di più o che amiamo fare. Col delivery a conti fatti si risparmia, e l’economicità e alla base del futuro: follow the money.

Certo parliamo di tendenze in atto, non di una rivoluzione già avvenuta. Sia ben chiaro: si cucina ancora tantissimo a casa, soprattutto in Italia (meno a New York). Ma la proiezione è semplice: dopodomani ci saranno più delivery di oggi, e tra cinque anni ci saranno più delivery ancora. Se tecnologia e convenienza hanno favorito l’esplosione delle consegne a domicilio, dal lato di chi vuole entrare in questo mondo che prospettiva c’è? Quella dell’ abbattimento dei costi di entrata, soprattutto per le metropoli.

Arrivano le cucine virtuali

Da qui la novità più interessante per chi vuole aprirsi un punto ristoro e non ha soldi: i ristoranti virtuali il cui unico obiettivo è la consegna del cibo a domicilio. New York ne è piena. Affittate una cucina, inventate un nome, un menu e il gioco è fatto. Per iniziare non ci vuole nulla, se non la propria forza lavoro e i soldi per le materie prime. Paghi un affitto e hai accesso, per il tempo che ti serve, ad una “shared kitchen”, una cucina condivisa con licenza e compagnia bella. Una maniera per iniziare dal basso, per proporre la propria offerta culinaria, a cui vanno accompagnate le spese di marketing per far conoscere ciò che si offre, nell’attesa che il passaparola faccia la sua parte: dal classico volantinaggio a pubblicità su Facebook, Google, Yelp o social in generale.

Certo. Le cucine virtuali sono altra cosa rispetto al glamour di aprirsi un ristorante, ma sono qualcosa di nuovo anzi nuovissimo, e a pieno regime promettono margini di guadagno succulenti grazie all’ abbattimento dei costi, e ai prezzi competitivi. Soprattutto possono aiutarci, se ne abbiamo voglia, al passo successivo: aprirci un ristorante.

Premettiamo una cosa però: non bisogna farsi illusioni. La ristorazione in generale non è un mestiere facile, ed è altamente competitivo. C’è spazio per tutti, ma rimanere in piedi implica una dedizione assoluta al mestiere, una totale vocazione che potrebbe evaporarsi con gli anni. Il numero di ristoranti che chiudono a New York è pazzesco, non è che ogni azione sia moltiplicazione di denaro. Tuttavia, fallire è parte della vita come morire. Il punto è un altro. E su questo dobbiamo soffermarci: esiste spazio. E dentro questo spazio possiamo costruire il nostro futuro.

Il ristorante piccolo e bello

Un passo successivo, rispetto alla cucina virtuale, è il ristorante piccolo-medio senza fronzoli. Questo modello di ristorazione funziona tantissimo con gli italiani all’estero, perché possono garantire qualità, minimizzazione del caos e contatto diretto con il cliente. Se vado da Olive Garden, una catena americana con 800 ristoranti italoamericani, manager, cuochi, e staff cambiano alla velocità della luce, non mi aspetto il tocco di magia, ma una cucina passabile a prezzi buoni, e un posto vagamente familiare. Perché una cosa dobbiamo dirla, e non è un luogo comune: gli americani hanno il loro palato e non è come quello nostro, intanto perché in genere nella loro scala di valori il cibo non è al primo posto (come per italiani o giapponesi), e tendono a concentrare le loro passioni sulla carne alla griglia tradizionale, il famoso barbecue. Insomma per molti americani la ristorazione è un business come un altro, spesso manca loro il tocco del ristoratore, ma hanno un talento naturale nello scalare. Da un ristorante ne possono aprire 10, 100, 1000. Gli italiani no, si concentrano sul piccolo perché questa è la dimensione in cui si riduce il rischio di sbagliare un piatto,  di creare caos nel servizio, o di far fallire il ristorante per i troppi coperti rimasti vuoti. Inutile negarselo: la figura carismatica del ristoratore italiano è il cuore del successo all’estero, fatto di sorrisi ai clienti, di atteggiamenti italiani, ciao bella, cosa vuoi? Perché all’estero si va soprattutto per seguire un canovaccio di stili e atteggiamenti che vengono dalla cinematografia, della voce squillante di Sophia Loren che dice Marcello. Il ristoratore italiano è un puro cinema. C'è quello burbero, il fascinatore, il romantico, l'elegante, l'esperto.  Si va dalla pizzeria di 70 coperti stile Ribalta a New York, alla pizzeria con 20 coperti stile Song e Napule, oppure San Matteo.  Per non parlare della potenzialità dei panini, come Pisillo a Wall Street con posti a sedere al bancone.  Nel piccolo c’è il bello dell’italianità. Su questa tipologia (il ristorantino o pizzeria) gli italiani non sbagliano mai, hanno un dono o un tocco particolare, che è il riflesso di un grosso limite: non riescono a moltiplicare i pani e i pesci, a fare il salto di dimensione. È un’ostacolo culturale (come anche per giapponesi e francesi) alla scalata: non riusciamo a scalare perché non riusciamo a delegare, a fidarci, a gestire organizzazioni complesse, anche dal punto di vista finanziario,  per questo non esistono catene di ristoranti o addirittura catene di fast food italiane di portata internazionale. Pensate alla pizza. L’abbiamo inventata noi, ma l’hanno trasformata in fast food le multinazionali americane, da Pizza Hut a Domino’s, passando per Papa John's. Perché non c’è una catena internazionale di pizza italiana? Ci sono stati dei tentativi in giro per il mondo, alcuni si stanno espandendo proprio adesso come l’antica pizzeria da Michele di Napoli, usando lo strumento del franchising. Un ritardo però di trenta anni sulle potenzialità del mercato, che era pronto già da prima, probabilmente già negli anni ’90,  all’origine della globalizzazione (il sushi iniziava a sbarcare in Italia, almeno nelle metropoli, in quegli anni). C’è un problema anche culturale. Il fast food è più replicabile dello slow food, e il fast food è americano, lo hanno nel DNA, mentre l’idea del ristorante replicabile ovunque, con processi schematici, è lontana dal nostro modo di concepire il cibo, che è dedizione ad un’idea di vita. Non a caso lo slow food è nato in Italia in opposizione al fast food. Siamo inguaribili conservatori in un mondo che cambia vorticosamente. I giapponesi hanno lo stesso limite: la loro idea di ristorazione è ancora più minimal: prendete sushi Hiro e l’ossessione per il piccolo, la qualità e il tocco dello chef. A queste condizioni, la possibilità d’estensione globale è ridotta anche per un’ impossibilità culturale di averne prestigio sociale, perché la cultura giapponese è quella: premia la dedizione al gesto, non l’arricchimento scandaloso. In parte è così anche l’Italia: amiamo le piccole storie di successo, amiamo più la trattoria di provincia, che l’epopea del ristoratore globale. Prendete Eataly e Oscar Farinetti. Quell’uomo ha fatto qualcosa di impensabile, dando una spinta globale al made in Italy, ma in patria qualcuno lo vede come un nemico della patria. Se avesse aperto un agriturismo in provincia di Torino, lo ameremmo. È mentalità, che sta cambiando, ma dall’altro lato resiste. E dall’altro lato dell’emisfero Italia c’è Panda Express, una catena di fast food sinoamericana che serve cucina cinese e ha oltre 2.200 sedi: è la più grande catena di ristoranti del segmento asiatico negli Stati Uniti. Capite di che dimensioni stiamo parlando quando parliamo di potenzialità del cibo nel mercato americano? Oppure prendete il gruppo Tao che tra Las Vegas, Miami e New York ha aperto decine di ristoranti sofisticati, vere "money machine", e poi ha venduto il 65%  per quasi 181 milioni di dollari.  

Quindi ammettiamolo: l’idea di ristorazione come business infinito non è nelle corde degli italiani, che sono abili nella “misura d’uomo”, nel piccolo, proiezione anche del nostro tessuto industriale fatto di piccole aziende.  Di solito ad aprire questi ristoranti a misura d’uomo a New York sono persone che hanno già esperienza nella ristorazione, ma non tantissimo capitale. Magari subentrano in un ristorante che sta chiudendo, in modo che non devono fare grandi rinnovamenti, oppure partono da zero con uno o due soci, salvo poi litigare e dividersi.  Hanno fatto esperienza nei locali di New York  (o a Miami, Las Vegas, Los Angeles), magari come camerieri o manager o chef, per capire come funziona il sistema newyorkese, poi si gettano nel sogno americano. Possono anche aprire due o tre ristoranti, ma si fermano là. Oltre implica un livello di organizzazione che spesso manca. Se manca quel tocco espansivo, meglio concentrarsi su altre voci del proprio fatturato: non solo il delivery, ma anche il catering (importantissima in una città di affollamenti come New York). Il segreto del loro successo è questo: puntare su piatti semplici e tradizionali, differenziare la cucina italiana da quella italoamericana (con qualche cedimento), e soprattutto (ultima tendenza) la regionalizzazione. Ebbene sì, è arrivato il momento di scomporre la cucina italiana nelle sue varianti locali e proporla all’estero. Da poco a New York è arrivato il panzerotto e la piadina, non hanno sfondato ancora, ma ci narrano una tendenza importante. Non si moltiplicano solo le serie Netflix, aumentano anche i piatti proposti all’estero. Allora non ci sarà il ristorante italiano, ma quello siciliano, o pugliese, o sardo, o emiliano. Il pubblico metropolitano è maturo per accettare quest’ulteriore definizione: siamo italiani sì, ma pugliesi. Siamo italiani sì, ma piemontesi. Perché nella metropoli c’è avidità di conoscenza. Ricordiamo un altro aspetto: entrare in una cucina di New York è come viaggiare lontano. Voglio essere sorpreso dai sapori di una terra lontana, perché una vera e propria cucina newyorkese non esiste (a parte la steakhouse), se non come molteplicità di cucine. Questa regionalizzazione ha preso vita nel 2010 con l’apertura di Eataly sulla Fifth Avenue, che ha fatto da nave scuola: ha insegnato agli americani quante varietà regionali esistono in Italia, con un occhio speciale al Piemonte. Ma torniamo al ristorante italiano a misura d’uomo. Ci sono tre tipologie di clienti su cui puntare: il “vicinato”, importante per i delivery, gli italiani che vivono a New York, e infine il turista italiano. Sono queste le tre voci del loro fatturato, e sono tutte e tre necessarie. Da questo punto di vista è importante anche la zona in cui si apre il ristorante. Se siamo a Midtown saranno uffici e turisti, se aprite nell’Upper East Side invece residenti, e sempre turisti. Il turista italiano (o il residente italiano) arriva ovunque per mangiarsi il piatto di pasta. Una corsa in metropolitana e via.

Il ristorante relazionale

Ora arriviamo all'ultima tipologia di ristorante, il passo successivo, che è quello massimo per eccellenza, quello della ristorazione “relazionale”. Cioè un ristorante con una discreta carta di vini, un certo “ambiente”, dove si va per farsi vedere. Non sono ristoranti che ambiscono alla stella Michelin, non si tratta di quello (magari l'ottengono, ma non è quello l'obiettivo),  ma vogliono creare un luogo dove il newyorkese può fare l’attività sua preferita: networking. Si guadagna molto con i vini e i drink, meno col cibo, e spesso si trasformano in nightclub di notte (che in America sono piccole discoteche) o sono collegati a qualche rooftop. Un esempio italiano di questo tipo a New York è Feroce, appartenente sia a Francesco Panella che al Gruppo Tao. Dopo aver mangiato puoi salire sul rooftop dell'hotel. Ma il capo indiscusso da questo punto di vista è Nusret con le sue Steakhouse turche il cui successo dipende non solo dal suo divismo (gettare il sale facendolo scoppiettare sul gomito), ma anche il fatto che i suoi locali sono perfetti per incontrare le persone giuste. Questi locali ti danno sempre la sensazione di essere troppo costosi, ma l’esperienza merita, ed è un investimento sul proprio network, quindi sulle possibilità di incontri che cambiano il futuro. Questo passo successivo, cioé il ristorante relazionale, però implica una vocazione al rischio importante, ed un grosso impegno finanziario, detto papale papale per un ristorante relazionale servono i soci finanziatori col portafoglio pieno, anche perché a differenza del ristorante piccolo, quello relazionale è replicabile, perché per sua natura per funzionare bene nasce  già come "organizzazione". E "l'organizzazione" è esportabile. Allora poi puoi aprirlo a Las Vegas, Los Angeles, Dubai, Milano, ecc.  E con questo abbiamo finito, siamo partiti dalla cucina virtuale, abbiamo analizzato il ristorante medio piccolo, fino al ristorante relazionale.

Badate ai social

Ora veniamo al declino delle guide culinarie. Regge solo la Michelin, tutte le altre oramai contano pochissimo. Non muovono clientele, almeno non come una volta. Che siano Gambero Rosso, Espresso, o altre guide come Zagat a New York, hanno fatto il loro tempo. Conta per un ristorante una strategia social, per cui  dare un pasto gratis agli influencer per un po’ di pubblicità è sempre un ottimo affare, anche se spesso ci sembra che l’influencer se ne approfitti.  E questo dei social è una questione che va affrontata sul serio. L’instagrammizzazione delle nostre vite condiziona le scelte dei ristoratori (chi ha fatto il mio videocorso lo sa). Torniamo da Nusret, la sua fama è fondata sulla sua perfetta instagrammabilità del suo modello di business: fisico scolpito, movimenti teatrali, tormentone, e clientela vip continuamente ostentata: sportivi soprattutto, ma non solo. Fece il video anche del dittatore venezuelano Maduro, salvo poi toglierlo di mezzo a causa della shitstorm che lo ha colpito.

Bisogna oramai tener conto della dimensione social perché è la dimensione entro cui si narra la nostra vita, e ignorarlo equivale a mettere la testa sotto la sabbia. Ultimo punto interessante, e davvero chiudo. Non solo ristorante italiano, ma anche scuola di cucina. In questo senso c’è Kesté a New York a fare scuola: fa la pizza, ma anche i corsi per fare la pizza. Ha senso, perché ricordiamolo. Chi fa ristorazione all’estero ha l’obbligo di spiegare chi è e da dove viene. In questo il senso di una missione.

 

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