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Intervista ad Alessandro Condurro della pizzeria napoletana "Da Michele"

Piero Armenti, [email protected] 

Da Michele è una pizzeria di Napoli che amo molto, in quanto “no frills” come dicono in America. Una pizzeria senza fronzoli, dai prezzi popolari, dove puoi scegliere solo tra Margherita e Marinara. Non c’è il pizzaiolo divo, ma ti siedi ad una tavolata del popolo a gustarti un prodotto semplice. E se qualcosa di così tradizionale da un lato intenerisce, dall’altro incuriosisce il progetto d’espansione del brand. Mentre ero in Giappone, mi trovavo tra le strade di Tokyo, mi apparve una pizzeria “Da Michele” (in basso la foto) . Non potevo crederci, cosa ci faceva lì un pezzo di Forcella? Entrai e mangiai la Margherita. Era ottima come a Napoli, con prodotti semplici e talmente grande da fuoriuscire dal piatto. Certo mancava Forcella, la fila, i numerini. Ma l’esperienza è stata incredibile, a migliaia di chilometri da Napoli. Ne ho parlato a telefono con Alessandro Condurro, he rappresenta in Italia e nel mondo L'Antica Pizzeria da Michele, e gli ho chiesto un po’ di cose.

Alessandro, devo iniziare con una domanda inevitabile. E’ stato un anno difficile vero?

Dal punto di vista imprenditoriale, c'è stato un congelamento, ci siamo bloccati. Un’ondata di azoto liquido si è abbattuto su di noi. Poi sai la mia impresa  è fatta di viaggi e pubbliche relazioni, il fatto di non potermi spostare mi ha bloccato un po’ in tutto, e ora siamo fermi nell’attesa di scongelarci.

Questo riguarda sia la pizzeria di Napoli che le pizzerie nel mondo?

Esatto. Abbiamo smesso di lavorare, di incassare, si lavora a periodi alterni. Adesso lavora un po’ di più il Giappone, anche un po’ Los Angeles, ma è comunque un apri  e chiudi. Chiaramente non esistono i volumi di affari precovid, siamo fermi. Siamo a meno della decima parte. I nostri partner in franchising, dal momento che le pizzerie sono chiuse, non possono pagare la royalties, e abbiamo dato loro un anno di respiro. 

Il progetto però è ambizioso, a quante pizzerie siete arrivati?

Siamo 19 pizzerie compresa Napoli, l’ultima ad aprire è stata Palermo, in pieno Covid, ed è anche la pizzeria a sud di Napoli. Ce ne sono tre in Giappone, per ora una a Los Angeles, due a  Londra, una a Berlino, tre nei paesi Arabi di cui una a Dubai.  In Italia siamo a Roma, Firenze, Verona, Milano, Bologna e Palermo.

Che piano di espansione ti sei immaginato?

Senza il covid, oggi ne contiamo 19, ne avremmo già 23 o 24. Nei prossimi anni ne apriremo altre quindici, perché abbiamo un partner che ha preso l’esclusiva per tutti i paesi arabi, al momento siamo a 2 e dobbiamo aprirne 8. Lo stesso negli Stati Uniti, si dovrebbe arrivare a 10, al momento c’è Los Angeles.

E tra queste dieci c’è New York.

Assolutamente sì.

Da Michele è un luogo tradizionale, legato alla storia di Forcella, alla storia di Napoli. Un luogo popolare dove tutti possono sedersi e comprarsi la pizza, perché costa poco. Come si può replicare qualcosa di così unico nel mondo?

Dici bene, la pizzeria storica di Forcella ha una storia unica, ed è un’esperienza particolare. Siamo un po’ come Katz's Delicatessen a New York famoso per il suo pastrami, ed associato al pastrami nell’immaginario collettivo. Da Michele è l’idea di pizza con cui siamo cresciuti. Qui abbiamo avuto politici, attori, diplomatici seduti al fianco dei rom. È una pizza popolare. Chiaramente non puoi replicare un miracolo unico di Forcella, tutte le altre pizzerie del mondo non sono strutturate sul concetto di margherita e marinara, ci sono anche altre pizze, ma si rispetta la semplicità di Napoli.

Poi c’è la soddisfazione di portare Napoli nel mondo.

Portare Napoli nel mondo è una cosa bella, io voglio portare la parte bella di Napoli, affinché se ne parli bene al di là degli stereotipi: qui c’è tanta imprenditoria, fior fior di professionisti. Da questo punto di vista è una città molto vivace.

Se io dessi come voto cento alla pizza Da Michele a Forcella, tu che voto daresti a quelle di Los Angeles e Giappone?

Io darei 90. Replicarla è impossibile, perché è impossibile replicare un’esperienza unica. Quando andai in Giappone, per esempio, mi sembrava molto più dolce, e loro non usavano il pecorino perché ai giapponesi non piace il pecorino, per quanto riguardo l’impasto è quasi identica, dipende dalle condizioni climatiche, a Napoli abbiamo 22 gradi a Dubai a 50 gradi, però troviamo il modo di adattarci, i nostri laboratori sono a temperatura controllata. I prodotti però sono gli stessi. Il fiordilatte del caseificio fratelli Fusco è in ogni parte del mondo, come il pomodoro, l’olio, e la farina di Caputo. La base degli ingredienti è la stessa. Poi noi insegniamo le tecniche ai pizzaioli.  Vengono a formarsi a Napoli, e noi mandiamo i pizzaioli in giro per il mondo a fare formazione.

Il brand Da Michele quanto è radicato nel mondo?

Siamo diventati famosi prima dell’epoca social, con il passaparola. Ma non è accaduto da un giorno all’altro, ci sono voluti quaranta, cinquanta anni, per merito di chi c’è stato prima di me. Da Michele è diventato Da Michele prima delle pagine sponsorizzate sui social. Il passaparola secondo me resta nella testa della gente, e tanta gente è venuta a Napoli solo per provarla. Ora cerchiamo di portagliela a casa loro. Da Michele è radicata a New York come nome. Sicuramente in parte ci ha aiutato il film con Julia Roberts (Mangia, Prega, Ama). Per molti Da Michele è la pizza dell’infanzia. Quando apriamo nel mondo i prima a venire sono i figli di emigranti napoletani che ricordano che il nonno che li aveva portati qui da bambini, e  finalmente sentono quegli odori e qui sapori. Alla parola motocicletta viene in mente una Harley Davidson, se pensi alla pizza, hai in mente una bella margherita più grande del piatto, e su un tavolo di marmo. Questa è la pizza Da Michele

Come nasce l’idea di fare solo margherita o marinara?

Ti spiego, è stato dettato dalla necessità, e poi abbiamo continuato diventando per alcuni un po’ i puristi della pizza.  Ma la verità storica è questa. Prima della guerra facevamo anche le pizze fritte, ma nel dopoguerra le uniche due pizze che la gente si poteva permettere erano Margherita e Marinara, e il bisnonno Michele decise di fare solo quelle, anche per evitare problemi di magazzino. Poi la voce si sparse in tutta Italia. Chi viene qui viene per vivere l’esperienza completa: il numerino, due ore di fila, ti siedi vicino alle persone che non conosci. Come Kat’z con il pastrami.

Esatto, ma poi credo che mancando la figura del pizzaiolo divo, doveva emergere almeno un prodotto che alimentasse il mito. Nel vostro caso due tipi di pizza. Però la parte interessante è come qualcosa di così tradizionale possa essere all’avanguardia nel modello di espansione.

Nel 2010 un giapponese che era in vacanza, si innamorò della nostra pizza, al punto che andò alla cassa e disse io voglio aprire questa pizzeria in Giappone. Mio cugino Alfonso lo passò al dipartimento internazionale, che in realtà non esisteva, ma nella sua mente ero io. Mi disse: “Guarda che ti sto mandando un giapponese”, io iniziai a googlare franchising, e misi su un discorso con questo giapponese che rappresentava un grande gruppo nel campo del food, un po’ come Autogrill da noi. Da lì nacque tutto. Certo che l’idea dell’espansione già l’avevamo, ma l’occasione arrivò così.

Tu però sei un commercialista non un pizzaiolo?

Io sono entusiasta di questo mondo, anche se non sono propriamente un pizzaiolo. A diciotto anni ho anche provato a fare la pizza, ma dopo tre mesi ho lasciato per seguire le orme di mio padre commercialista.  In questi anni c’è stato un boom del mondo pizza, ma non ha coinciso una crescita degli addetti ai lavori. I pizzaioli vogliono diventare star ma rimangono pizzaioli con i loro limiti, dovrebbero crescere anche dal punto di vista culturale,  ci sono invece guerre e invidie.

E in ogni caso poi i discorsi sulla miglior pizza in assoluto perdono valore quando hai grandi multinazionali che oramai aprono ovunque, come Domino’s, Pizza Hut o Papa Johns.

Qui si guarda al territorio, la qualità del fiordilatte, ma il mondo è fatto da miliardi di persone, noi ce la meniamo con le persone che vengono a Napoli a mangiarsi la pizza, ma la maggior parte del mondo mangia la pizza di Domino’s. Esiste un mondo  che esula completamente da quel che ci vuole far credere la stampa locale. Ci sono grandi nomi Martucci, Sorbillo, Coccia, sono tutti miei amici e ci stimiamo. Ma non è quello a cui io faccio riferimento. Pecco di mancanza di umiltà, ma coloro che vedo come i miei competitors sono catene come Domino’s, Pizza Hut e Papa John’s. Quelli per me sono il modello di espansione del business, non i modelli artigianali napoletani. E comunque ci vorrebbe una capacità di fare gruppo, e invece spesso c’è un atteggiamento del tipo solo io so fare la pizza. Per me la soddisfazione più grande è stata quando ad un premio che consegnavano a Londra mi trovai allo stesso tavolo con l’amministratore delegato UK di Pizza Hut, e lui disse che una volta venne a Napoli e si ricordava di aver aspettato due ore per entrare da Michele.

Credo ci sia una differenza culturale, per gli americani il food è un business come un altro, noi la viviamo diversamente, diamo più valore forse al cibo. In ogni caso spesso grazie ai pizzaioli nel mondo si esporta la pizza napoletana nel mondo, un modello dal basso.

Sicuramente questo elemento c’è, ma la differenza culturale è centrale. Considera che quando un americano apre una pizzeria pensa ad una catena. Quando i miei partner decidono di aprire all’estero, tipo Stati Uniti o Giappone o paesi arabi, non mi parlano mai di aprire una sola pizzeria, ma tante.

Pizzerie migliori a New York?

Quando vengo a New York i primi posti sono mio cugino Rosario Procino e Pasquale Cozzolino, e Ciro di Song E Napule.

Sulla margherita che olio ci mettiamo?

Quello di semi.

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