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Il Decennio dei social che ha rivoluzionato chi siamo e cosa vogliamo

social media Feb 16, 2021
Piero Armenti, [email protected] 

Ve lo ricordate cosa c'era prima dei social ?

Io non me la ricordo bene la mia vita prima del decennio dei social (2010-2020), non ricordo per esempio come sceglievo un ristorante nel 2005 senza guardare le foto su Instagram, né i luoghi da visitare per le vacanze, né come comunicavo con le altre persone senza WhatsApp, oppure come ci provavo con una ragazza senza like e cuoricini. La forza di una rivoluzione è tutta qua: non ti ricordi più quello che c’era prima. Siamo così dentro a questa nuova normalità che non abbiamo avuto il tempo di prendere le misure del cambiamento. Eppure io sono un sopravvissuto della preistoria, in cui se avessi voluto chiamare una ragazza avrei dovuto farlo sul telefono di casa (il cosiddetto fisso), col rischio che rispondesse il padre o la madre. E quando uscivo, alla cabina potevo usare il gettone telefonico, che valeva duecento lire. Un prima e un dopo dicevamo. La forza di ogni rivoluzione è questa: il prima non esiste più. E allora mi sono chiesto, mentre preparavo i miei corsi (qui), come sia stato possibile tutto questo?

 Al centro di questa rivoluzione ci sono i social, e nello specifico Facebook, nato nel 2004. C’è un prima e dopo Facebook, perché nella cultura di massa se parliamo di Social Network parliamo di Facebook. Youtube venne fondata nel 2005, Twitter nel 2006, Instagram nel 2010. E parliamo dei quattro social network più importanti, che assieme hanno provocato la rivoluzione del decennio social, che è una rivoluzione non solo di comunicazione, ma di immaginario, che ha sostituito quello televisivo. Tanto per capirci: negli anni ’90 volevamo entrare a Non è la Rai, tutte volevano essere Ambra Angiolini leader di quel gruppo di adolescenti vincenti. Poi avevamo il mito della velina di Striscia la Notizia, infine arrivarono i reality show e l’ambizione di entrare nella Casa del Grande Fratello (lo ricordate il film di Garrone? Reality), poi tronista di Uomini e Donne, o partecipare ad Amici di Maria De Filippi. Questo era un mondo televisivo, un immaginario televisivo che si era creato a partire dalla tv commerciale degli anni ‘80. Poi boom: sono arrivati i social, e quest’immaginario ha iniziato ad invecchiare: alla fine del decennio social tutti vogliono diventare influencer. Su Youtube, su Instagram, su Tik Tok. Ma ancor di più se vanno in Tv, lo fanno con la speranza di aumentare i followers su Instagram. I social, per dirla alla Gramsci, hanno l’egemonia. E ce l’avranno sempre di più, fino alla prossima rivoluzione che non vediamo.

Ma è davvero tutto merito di Facebook?

Tutto questo è merito di Facebook? Può essere che un gruppo di ragazzi di Harvard avesse come obiettivo la rivoluzione?  La risposta è no. Il successo è stata conseguenza di un’altra rivoluzione tecnologica che è avvenuta qualche anno dopo, e a cui arriveremo tra un attimo. Ma prima bisogna tornare a Facebook, all’origine di questo particolare Big Bang.

In principio Facebook venne pensato come un social, un luogo d’incontro per gli studenti di Harvard, i più fighi di tutti. Harvard è un nome familiare anche per noi italiani, che lo colleghiamo all’eccellenza universitaria.  Appena entrano gli studenti di Harvard,  iniziano per emulazione a voler entrarci anche quelli delle altre università americane, e infine quelli delle superiori, e in brevissimo tempo il mondo intero.  Se lo avessi inventato io all’università di Salerno, e lo avessi chiamato l’Almanacco, non mi avrebbe cagato nessuno, neanche nel mio pianerottolo.

L’effetto a cascata nasce perché questo social è nato nel punto geografico giusto, dentro il mito di Harvard e dentro al mito libertario dell’America.  Affinché una tale cosa potesse accadere, era necessaria la leva della supremazia linguistica, finanziaria, militare ed anche d’immaginario (pensate a Disney) di quest’Impero. Zuckerberg dovrebbe ringraziare George Washington innanzitutto, il primo presidente americano che rese questa terra indipendente.  Ma, ancora più in profondità, a fare da leva è stata l’aspirazione dei giovani americani di essere parte di una sorta di “megafraternity” di gente alla moda e vincente, la gente di Harvard con i loro maglioni, e i loro riti. A quel punto il gioco è fatto:  il resto del mondo ha voluto far parte di questo luogo virtuale cool, perché qualche amico alla moda ci ha detto che dovevamo esserci, e noi ci abbiamo creduto.

Il passaparola e l’emulazione sono alcuni meccanismi dell’espansione dell’origine. Quindi all’inizio Facebook era una piattaforma di studenti, poi sono arrivati i genitori per controllare i figli, e ci sono rimasti per spiare anche gli altri genitori, mentre Facebook intanto imparava a monetizzare tutto questo (con la pubblicità ovviamente), e perfezionava l’algoritmo trasformando la piattaforma in un luogo totale capace col tempo di ospitare i figli che si divertono sui gruppi con i meme, i genitori che leggono i giornali, e i nonni.

Questa trasversalità di età, ancora adesso la ha solo Facebook come piattaforma, e ricorda da vicino la tv generalista della Rai: lo stesso pubblico. Facebook è il social network totale, anche se viene percepito come già antico e fuori moda, un po’ anzianotto, quindi meno avvincente di Instagram o Tik Tok. 

La centralità dello smartphone nella rivoluzione

All’origine di Facebook più che un’idea brillante (cose simili già c’erano, tipo Orkut, Myspace) c’è il luogo giusto in cui nascere (Harvard), ma anche il tempo giusto. Perché quasi contemporaneamente c’è stata la vera rivoluzione che ha contribuito alla massificazione dei social. Nel 2007 venne lanciato il primo iPhone. Nel giro di una decina d’anni, ogni persona del globo (in Occidente e nei paesi in via d’espansione) avrebbe avuto in tasca uno strumento con cui navigare su internet. Uno strumento da tenere con sé, e tirar fuori in ogni momento morto, per andare immediatamente in luoghi di intrattenimento virtuale, o leggere un giornale, vedere un film.

Finché l’accesso a internet era relegato al computer di casa, o al portatile, le potenzialità d’espansione dei social erano limitate. Per creare la rivoluzione social,  bisognava averlo in tasca questo oggettino, e aspettare che il suo uso diventasse diffuso, dal costo decrescente, e soprattutto veloce e con la possibilità di scaricare una quantità sempre maggiore di dati nel minore tempo possibile.

All’inizio furono attratti dall’iPhone i professionisti, poi i giovani, infine ceto medio e classi popolari. Non è strano trovare smartphone in luoghi di degrado, perché oramai è parte della nostra vita. Per quanto possa sembrare assurdo: tra avere acqua corrente a casa e smartphone, molti preferirebbero quest’ultimo. Lo smartphone è diventata un’estensione della nostra mano, custodisce i nostri segreti, e quando lo dimentichiamo ce ne sentiamo persi. Un oggetto così, che ci avesse dominato tanto, non era mai esistito. L’unica cosa simile è la TV, come potenziale di dominio. E così fu rivoluzione: all’inizio l’iPhone lo avevano quei pochi che potevano permetterselo; ora invece un iPhone, o un qualsiasi smartphone, ce l’hanno praticamente tutti.

E quindi possiamo capire meglio la rivoluzione che stiamo vivendo. Non solo di modi di comunicare, ma di immaginario grazie alla moltiplicazione dei contenuti. Cioè di come la nostra testa venga occupata da personaggi, comportamenti, e azioni che sono totalmente nuovi rispetto al passato, e di come contenuti apparentemente banali abbiano un’esposizione di massa inaspettata, la cosiddetta viralità.

Io l'ho capito quando ho aperto la pagina Facebook Il Mio Viaggio a New York

Questa volta devo parlare di me, perché partire da qualcosa che ho vissuto in prima persona mi aiuta. Ho iniziato nel 2014 con una pagina Facebook con poche migliaia di iscritti, in un mondo in cui le pagine Facebook non erano così diffuse. Dopo sette anni ho quasi un milione e mezzo di like. Nel 2018, quando tornai in Italia,  decisi di fare degli incontri in piazza con i miei followers. Mi aspettavo che arrivasse qualche persona, e invece mi trovai le piazze piene. A Palermo, Napoli, Bari, anche Verona, e Roma. Ovunque un mare di persone. Com’era possibile tutto questo? Non ero un attore, né uno sportivo. Non ero un cantante, né un personaggio televisivo (nella foto quello al centro sono io)

Da dove arrivava la mia fama, la familiarità del mio volto, questo ingresso un po’ sottotraccia nell’immaginario degli italiani che mi associavano sia a New York, che a uno stile di vita godereccio. Tutto ciò derivava da questo immenso movimento tellurico in corso, da questa frizione della storia. I social nel 2018 erano definitivamente emersi come strumenti capaci di definire il nostro immaginario, di farci innamorare di un personaggio. Se prima c’era Carlo Verdone, ora arrivavano i The Jackal, se prima c’era il film Benvenuti al Sud, ora arrivava Casa Surace, se prima c’erano le veline, ora c’è Giulia De Lellis, se prima c’erano il libri in cucina di Benedetta Parodi, ora le ricette di Benedetta Rossi. In tutti i settori della nostra vita il nostro immaginario si arricchiva di nuovi personaggi non più televisivi, ma nati ed emersi sui social media, con una molteplicità infinita di nicchie coperte da un influencer. Volevi sapere del Giappone, seguivi Marco Togni, ti interessava il giornalismo americano, andavi sul profilo di Francesco Costa.  Questo mondo si è consolidato in questo decennio, e ha scavalcato e reso arcaico anche il primo internet del decennio precedente (quello 2000-2010) fatto soprattutto di blog, perché la tecnologia dell’epoca permetteva solo ai blog una diffusione di massa: internet era lento, accedevamo tutti dal Pc (gli smartphone non esistevano), la scrittura era la cosa più leggera che esistesse. Ora siamo arrivati al 5G, ma all’inizio c’erano i famosi modem da collegare al telefono, con quel loro rumore stridente.

 Da questo punto di vista è interessante il percorso di Chiara Ferragni, che è probabilmente la vera regina di questo mondo. All’origine di Chiara Ferragni e della sua popolarità c’è stato un blog,  the Blond Salad, nato nel 2009. Dieci anni dopo nessuno ricorda che è partita così, perché Chiara Ferragni è diventata una star globale, un’instagrammer. Ma la sua origine è quella di una blogger.  Una cosa interessante è accaduta anche con le Kardashian, perché dimostrano come vi sia stata un qualche continuità narrativa tra l’ultima televisione (quella dei reality) e il nuovo decennio dei social. Perché i social hanno visto anche il trionfo della normalità ostentata in quanto normale, ma poi ci arriviamo.

Torniamo alle Kardashian: sono diventate famosissime grazie ad un reality show, poi hanno trasportato il loro seguito suo social, nello specifico su Instagram dove hanno numeri strabilianti. In questo trapasso, dal Reality al Social, si rivelano le potenzialità della Tv come trampolino di lancio per il proprio profilo Instagram, come acceleratore. Il nuovo ragionamento è questo: divento tronista da Maria De Filippi per aumentare i followers, che potrò successivamente utilizzare per i miei progetti. I followers sono la nuova valuta di scambio nelle relazioni commerciali. Mi paghi per i miei followers. La Tv è diventata “serva” del vero obbiettivo di massa, di generazione di ragazzini, ma anche di adulti in cerca di autore. Andiamo in TV perché vogliamo diventare famosi sui social. E vogliamo diventare famosi sui social per vanità, ma anche per guadagnarci il pane. Che sia il ragazzino con i videogiochi su YouTube, la ragazza che fa corsi di inglese su Instagram (Norma's Teaching), quello che fa i prank, il make-up. L’umanità ha nuovi desideri e aspirazioni. Il bambino voleva fare il calciatore, l’attore, il cantante. Ora ti dirà “voglio fare lo youtuber”. Sono cambiati i meccanismi di fascinazione, al punto che quando un grande calciatore come Benzema va da Nusret a farsi salare la carne, ne avverte l’aura di divismo, il suo essere in linea con lo spirito dei tempi. Il paradosso è che vogliamo essere Nusret che sala la carne e non più un calciatore.  Questo divismo nasce dall’assoluta forza attrattiva di una novità, ed è successo anche in passato. Facciamo un passo indietro, andiamo all’origine del cinema, agli anni ’20.

Rodolfo Valentino ci spiega il presente

Nel 1926 morì il primo vero divo Rodolfo Valentino. Il cinema aveva pochi anni di storia alle spalle. Tutti sapevano che il cinematografo avesse creato dei divi, ma non c’erano precedenti, e non se ne capiva la vera penetrazione. A rivelarlo fu la morte di Rodolfo Valentino. I funerali, qui a New York, furono un evento epocale, con migliaia di persone, e la polizia in difficoltà a contenere la folla. Roba che non si era mai vista, e i video storici di quel funerale ora sono custoditi al MoMA. Il punto è che quel mondo lì si trovava dentro la rivoluzione del cinema, ma non sapevano cosa fosse fino a quando non ne toccarono con mano la potenza. E tutti vollero diventare attori. Un altro esempio sono i primi ragazzi che entrarono nella Casa del Grande Fratello (vi ricordate il compianto Pietro Taricone?). Quando uscirono dalla casa, si resero conto che si erano trasformati in veri VIP. Eppure non avevano fatto assolutamente niente, se non farsi riprendere dalle telecamere. Non erano presentatori Tv, non avevano talento come attori o ballerini, non sapevano cantare. Ma la forza di quella novità, del reality, cioè di quel passo prima dei social, li aveva resi famosi. E tutti vollero entrare nella casa del Grande Fratello. Il nuovo ci cattura, dobbiamo ammetterlo.  Nei social vediamo un’ occasione per crearci una nostra community a costo zero, di liberarci dal lavoro salariato, di trovare la nostra traiettoria di vita, facendo leva sulle passioni o ciò che ci riesce meglio. E’ un mondo fantastico anche per gli introversi, che possono fare video in solitudine, ed avere una platea di persone potenzialmente globale.

I meccanismi dell’entrata in TV sono oscuri, c’è sempre qualcuno che fa la selezione all’ingresso, i social sono aperti a tutti. Sono una piattaforma neutra, di facile accesso, e si basano su meccanismi automatici che decretano il successo o meno di un contenuto, il cosiddetto algoritmo. La viralità è spesso inaspettata. Inoltre i social tendono alla “semplificazione”, grazie ad app, filtri, automatismi.  Se voglio pubblicare una foto bella su Instagram non devo andare dal fotografo. Ho le app di editing. Un po’ di luminosità, saturazione e il gioco è fatto. Se voglio fare un video, mi basta lo smartphone, la telecamera è potente, e le app di editing ci suggeriscono come montarlo.  Questo mondo “semplice” è nato grazie a quel primo passo fatto dal sistema operativo Windows, che rese accessibile a tutti il mondo dei computer che prima era solo per programmatori. Windows funzionava come una scrivania (Desktop) in cui c’erano le cartelle. Era intuitivo e perfetto per le masse.  Ma quell’intuizione è presente tutt’ora nei social. Sono semplici, accessibili a tutti, e danno a chiunque la possibilità di fare contenuti piacevoli. Prendete Tik Tok e le infinite possibilità di montaggio, tra musiche, video ed effetti speciali.  Prima non era così, il mondo della Tv era complicato e oscuro. L’accesso alla fama avveniva con la selezione all’entrata, e c’era un struttura direttiva che decideva chi avrebbe fatto la velina, o sarebbe entrato nella casa del Grande Fratello. C’era bisogno di competenze e strumenti tecnici professionali anche per realizzare il più semplice dei programmi. Insomma la Tv aveva fin dal principio costi elevati. Io invece il mio video in diretta da New York su Facebook lo faccio grazie ad uno smartphone che già ho, e di una connessione internet. Così allora cambia tutto. Apro il mio profilo, ho tanta tecnologia a portata di mano, ci posso provare, e se ci riesco ho un canale di comunicazione con milioni di persone a costo zero. Non è una grande bellezza democratica? Sia ben chiaro. I social non hanno distrutto la Tv, anzi ci dialogano. Nessuna rivoluzione distrugge ciò che c’era prima. La Tv, per esempio, non distrusse la radio, ma ne prese l’egemonia. Tutti convivono assieme in un nuovo ecosistema, solo che ora i social sono nuovi, quindi più forti ed affascinanti.

Tuttavia questa rivoluzione è ancora più forte di quello che è stata la tv a colori e commerciale negli anni ’80, quando si passò dalla Rai molto abbottonata, istituzionale e didattica, al magico mondo di “Drive In”, dell’intrattenimento, della trash Tv, accompagnata da una rivoluzione culturale targata anni ’80 e  che è sintetizzabile nella frase dell’indimenticabile Gordon Gekko: “L'avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l'avidità è giusta, l'avidità funziona, l'avidità chiarifica, penetra e cattura l'essenza dello spirito evolutivo”.

Dalla Tv pubblica, a quella commerciale, alle infinite varietà di canali digitali, arrivando infine a Netflix. La Tv ha continuato la sua evoluzione, mentre emergevano i social. Qual è stato il punto d’incontro: la scomparsa del palinsesto. Come su Facebook decido io quando andare, e tutto è disponibile h24, su Netflix succede lo stesso. Un algoritmo sa prima di me cosa voglio vedere, e io lo vedo quando voglio. Netflix è un grande contenitore dove trovo contenuti pessimi e contenuti eccellenti, ci sono film e serie Tv che hanno avuto successo anche se orrende, tipo il film 365 Days.

I social sono fluidi e antitelevisivi

Ma quale contenuto nuovo  trovo sui social che in Tv non c’è? Questo nuovo mondo narrativo è fatto di fruitori che possono trasformarsi anche in autori di contenuti. Lo stesso strumento che uso per accedere a Facebook (lo smartphone) può permettermi di fare video e foto. È la prima volta che c’è una perfetta simmetria. Lo strumento per fare radio è diverso da quello per ascoltarlo. Per fare un film ci vuole una telecamera, per guardarlo un proiettore. Se ora chiunque può fare video, siamo dinanzi ad una platea unica di autori improvvisati, i cui contenuti sono mescolati a quelli professionali: si va dal video occasionale a quello professionistico. Perché questo alla fine è il punto a cui dobbiamo arrivare, e ci siamo arrivati. Quando scorro la bacheca di Facebook passo da un video di gattini, al video di Piero Armenti che mi mostra New York, all’articolo del giornale, a mia suocera con la lasagna, al video super professionale del filmmaker. Nella loro rivoluzione dal basso, i social hanno svelato una cosa che era già lì: l’imperfezione, la sbavatura, la telecamera tremolante possono anche convivere con i contenuti professionali. A volte hanno anche più successo in quanto reali. E qui torno alla mia esperienza personale. I miei video su New York, fatti per strada con uno smartphone, ti danno una penetrazione ultra realistica, al punto che ti sembra di essere al mio fianco. Quest’ultra realismo è usato anche nelle storie di Instagram da Chiara Ferragni, che mostra senza troppi veli la propria realtà familiare e di coppia. Cioè i social hanno affiancato alla produzione classica televisiva, una quantità di contenuti dilettantistici (o semidilettantistici) da cui siamo incredibilmente catturati. Ma non si tratta di una vittoria dell’improvvisazione, un tripudio della mediocrità, perché chi emerge sui social ha come dote soprattutto la costanza, quindi mediocre non è. Si tratta di una rivolta contro il mondo precedente che non ci basta più, ed è una rivoluzione  simile a quella che avvenne nel mondo delle arti con l’Impressionismo e il Cubismo.

Ogni rivoluzione annulla il passato

Ad un certo punto nella Francia del 1860 un gruppo di artisti sgrammaticati cambiò il modo di fare arte, e qualche decennio dopo, l’emersione di Picasso e del Cubismo, decretò l’inizio di una nuova era dove una figura scomposta, che sembra fatta da un dilettante, valeva molto di più di un quadro tecnicamente perfetto. Non fu un passaggio indolore, non dimentichiamo che gli impressionisti non erano accettati alle esposizioni, al punto che nel 1863 diedero vita al Salone dei Rifiutati. Ma dopo di loro non ci fu altro modo di fare arte, la condizionarono per sempre.  Certo anche in questo caso a fare d’acceleratore ci fu un’innovazione tecnologica: la fotografia. Il primo autoritratto fotografico (selfie) risale al 1839, la prima foto di New York al 1848, la prima foto di Parigi con persone al 1839. Che possibilità avevano gli artisti di gareggiare con la fotografia nella riproduzione delle immagini? Nessuna, la fotografia avrebbe vinto, e quindi l’arte trovò una ragione di vita in questa svolta impressionista: si dipingeva all’aria aperta e i colori (che non erano presenti nella prima fotografia in bianco e nero) diventavano più importanti del disegno. Ma da quel momento in poi, slegata dalla rappresentazione di un’immagine (tanto c’era oramai la foto), l’arte poteva essere qualsiasi cosa: si poteva definire arte anche la spremitura dei tubetti di colore sulla tela di Pollock. Torniamo ad oggi: anche sui social può essere considerato “contenuto” qualsiasi cosa, anche uno che si riprende mentre dorme può avere i suoi cinque minuti di viralità. La sensazione "quel video virale lo potrei fare anche io"  è presente. I miei video su New York li potrebbero fare tutti, come tutti potrebbero fare uno strappo sulla tela allo Lucio Fontana, o un quadrato nero come Malevich. Perché questo? Perché i social hanno determinato l'avanzata di una nuova classe di autori (tra cui mi inserisco io) che nei media tradizionali non avrebbero trovato spazio, e che si oppongono alla narrazione televisiva perché semplicemente non la conoscono. Un video televisivo non lo saprei farei, un video con lo smartphone sì. Nel giro di dieci anni è stata creata una nuova massa di contenuti che non è entrata in competizione con la Tv, ma ha occupato alcuni  ritagli di tempo delle nostre vite in cui la TV non poteva entrare. Guardiamo lo smartphone in metro, per strada, al bagno, mentre stiamo sul divano. 

La fama può derivare da un video improvviso in cui dici “Saluta Andonio”, o da un progetto complesso, soprattutto ora che i social sono diventati luoghi pieni di contenuti semiprofessionali. Ma se dovessi definirne un canone di questo decennio social direi che l'improvvisazione e la naturalezza sono stati premiati. Anzi molti contenuti, troppo perfetti, si perdono. I contenuti dilettantistici ci attirano incredibilmente. Magari sono tecnicamente poveri, ma originali. Queste narrazioni che sarebbero “rifiutate” in Tv, sono la nostra nuova rivoluzione. La Tv ambiva al dominio, i social l'hanno bloccata, e ci hanno aperto ad un mondo narrativo diverso, anche democratico volendo, realizzato grazie all’innovazione dello smartphone. Lo smartphone nel nostro esempio equivale alla macchina fotografica, che sconvolge il modo di fare arte.

Ma allora cosa stiamo vivendo?

Forse è complicato, me ne rendo conto, e ancora non ci siamo bene resi conto di cosa stiamo vivendo. Siamo dentro un caleidoscopio di contenuti, perché i social sono la realizzazione di una società liquida, indefinita, indescrivibile, la somma del desiderio di ogni individuo di non appartenere ad altro se non a sé stesso. Sono il luogo della fuga dal potere verticistico, della realizzazione del proprio io libero. Ho una passione, la condivido, e non devo “leccare il c.” a nessuno. Punto. Eppure, non sono privi di problematicità, anzi sono il riflesso di una trappola ben nota: ci illudiamo siano un luogo di libertà, addirittura di anarchia, quando alla base ci sono due o tre corporation che comandano il nostro diritto di parola, e contro cui non ci possiamo opporre.  Instagram o Facebook o anche Twitter possono cancellare il nostro diritto oramai essenziale di stare sui social. Se l’hanno fatto con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, lo potrebbero fare con noi. E di solito non danno troppe spiegazioni quando ti cancellano una pagina, entri in un vortice kafkiano di interazioni automatiche, di risposte evasive, contro cui non c’è davvero nulla da fare. Una notizia positiva c’è però. I social si stanno moltiplicando: da Tik Tok a Clubhouse, da Telegram a quello che ci sarà nel futuro, la competizione tra social ci garantirà comunque una maggiore libertà. In futuro, perché per ora quelli che davvero contano continuano ad essere i social delle origini. Facebook, Instagram, Twitter e Youtube (a cui si aggiunge Tik Tok). Sono questi i fantastici quattro social californiani (più uno cinese) che stanno dominando la rivoluzione, a cui si aggiungono tanti altri di diversa natura, da Linkedin a Tinder.

Instagram merita un discorso a parte

Instagram poi merita un discorso a parte. Se Facebook è diventato il bar del paese, quello in cui commentiamo le notizie del giorno, Instagram è il luogo dove raccontiamo noi stessi. Conta l’immagine più della parola, e questo social ha favorito una piccola rivoluzione in tanti settori dell’economia. Pensate alla ristorazione, e all’ostentazione dei momenti instagrammabili. Salare la carne come Nusret, creare un cocktail fumante, una torta da cui escono gli sprinkles. Un ristoratore moderno deve tener conto anche di questo. Così come gli operatori del turismo. Quando andai a visitare Ostuni la mia guida mi fece vedere il punto più instagrammabile della città, una porticina celeste fantastica. Orde di turisti vanno nei luoghi per farsi fotografare. Sono movimenti di massa che cambiano il senso del turismo. Prendete una città come Napoli. Sicuramente tutti sappiamo riconoscere l’importanza del Palazzo Reale, ma su Instagram conta soprattutto la pizza.  Vado ad Aruba non solo per rilassarmi, ma per farmi la foto nella spiaggia con i maialini in acqua. Quando la gente viene a fare il mio tour del rooftop vuole una fotografia con un cocktail in mano, e lo skyline di Manhattan. Ma se queste tendenze in atto sono chiare, poco chiara è la nostra relazione con Instagram. E allora arriviamo al punto cruciale di tutto questo: siamo sinceri su Instagram? La verità è qua: siamo quel che vogliamo essere.  Possiamo ostentare la nostra normalità o ostentare una ricchezza che non abbiamo. Possiamo mostrare l’amore quando non siamo innamorati, o nasconderlo quando siamo innamorati. Instagram è un luogo dove tutto e il contrario di tutto accade: verità e finzione sono entrambe proiezione di un desiderio di fondo:  essere dentro una narrazione che ci faccia aumentare followers e like. A volte usiamo la sincerità altre la menzogna, come in fondo nella vita. Perché poi alla fine di questo si tratta: cerchiamo approvazione sociale e dobbiamo capire con noi stessi cosa siamo disposti a mostrare per quell’approvazione. C’è gente che si è indebitata per tentare la scalata al successo su Instagram, comprando cose che non si poteva permettere. O schiere di donne che decidono che un bel sedere è lo strumento adatto per avere seguito, e magari un passo dopo possono aprire un canale di soft porn su Onlyfans, come Bella Dolphine che ha un numero di abbonati per cui guadagna  oltre un milione di dollari al mese. Per gli italiani è emblematico il caso di Mirko Scarcella, il guru di Instagram che faceva lo spaccone raccontando uno stile di vita che non aveva. Ma Scarcella non è né la norma, né è l’eccezione. Non è né qualcuno di cui vergognarsi, né qualcuno da esaltare. Scarcella è una possibile narrazione di Instagram, una delle tante strategie che possono funzionare, in linea probabilmente con la sua personalità. E non è nulla di nuovo. Quante persone non se lo potrebbero permettere, ma acquistano la Louis Vuitton come emblema aspirazionale di una scalata sociale continuamente mancata. E allora definiamo meglio questo concetto: Instagram non ci ha né cambiati, né ha creato un copione narrativo valido per tutti. E’ solo un luogo dove lentamente, con la maestria dei vecchi artigiani che lavorano il legno, scalpellata dopo scalpellata, cerchiamo di arrivare ad un compromesso tra ciò che noi siamo, e ciò che gli altri vorrebbero noi fossimo.

 

 

 

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